Il giornalismo nell’era della censura digitale: quando l'algoritmo decide cosa vediamo.
Siamo sommersi da immagini e notizie, con l’illusione di sapere tutto, di potere scegliere. Eppure, l’informazione non è mai stata così controllata, così vulnerabile.
🇬🇧 You will find the English version below 🇬🇧
Viviamo immersi in un flusso ininterrotto di immagini, parole, notizie. Mai come oggi l’informazione è stata così accessibile, eppure mai come oggi è stata così fragile e difficile da riconoscere. In questo caos mediatico e visivo, uscire dalla nostra comfort zone diventa necessario per comprendere davvero il mondo che ci circonda. Significa cercare più fonti, magari in un’altra lingua, per costruire un quadro più chiaro e completo della realtà. Un’informazione fragile perché selezionata, filtrata, cancellata. Un colpo di algoritmo e una storia scompare, un clic e una testimonianza viene oscurata. La censura digitale funziona così: silenziosa, senza spiegazioni.
Nelle ultime settimane il mio account Instagram è stato preso di mira. Il mio profilo è sparito dalla ricerca, non ho potuto inviare messaggi per tre giorni e come ulteriore punizione non posso trasmettere in diretta per un anno. La censura non si ferma ai post cancellati, è più subdola, significa non raggiungere nessuno al di fuori della propria cerchia. È un isolamento digitale che diventa politico, perché certe fotografie danno fastidio, perché la realtà è difficile da ignorare quando si palesa nella sua violenza davanti agli occhi. Accade se si raccontano tematiche di particolare interesse geopolitico, conflitti, mancanze di diritti umani, quando si parla di Ucraina, di Gaza, di Cisgiordania.






Instagram, come altre piattaforme social, decide cosa può essere mostrato e cosa deve sparire. Foto di corpi senza vita, di bambini feriti, di miliziani armati, eliminati. Post che raccontano la violenza nei Territori Occupati, ridotti alla minima visibilità se non rimossi. Il tutto viene spacciato come moderazione, ma è controllo dell’informazione. Un controllo che segue logiche precise, che impone gerarchie nella sofferenza, che stabilisce quali guerre possiamo vedere e quali no. Le immagini scomode spariscono perché disturbano, perché danno fastidio. Perché l’orrore della guerra, se non lo vedi, non esiste, così è più facile parlare d’altro.

Si soffocano le voci che raccontano, che documentano, che testimoniano. Il caso della Palestina è tra i più evidenti. Non riguarda solo la fotografia, riguarda tutto ciò che rompe la narrazione dominante. Anche il seguente post è stato bannato, per aver riportato un estratto della mia newsletter, in cui raccontavo la storia di Saddam Rajab, un ragazzo palestinese ucciso a Tulkarem con un colpo all’addome dalle forze israeliane. Alla nuova censura a volte non serve più rimuovere direttamente, basta rendere invisibile. Basta limitare, nascondere, isolare. Non è solo una questione di immagini cancellate, ma un tentativo deliberato di manipolare la realtà a fini economici e politici, di certo non informativi.

Volevo ringraziare le tantissime persone che mi hanno scritto, con messaggi di supporto e suggerimenti su come andare avanti. È importante, perché oggi fare informazione non significa solo raccontare, significa anche resistere. Instagram, come tutte le piattaforme social, è una casa privata, e come ogni casa privata ha un padrone, un proprietario che può cambiare le regole quando vuole, cancellare contenuti, oscurare profili, decidere cosa esiste e cosa no. Quel potere glielo abbiamo dato noi, illudendoci di essere più vicini, di ampliare la nostra conoscenza, di apparire diversi. Ma in questa casa le regole non le facciamo noi. L’informazione prova a sopravvivere in mezzo a una marea di immagini effimere, di reels che scorrono veloci e che servono a distrarre, a sviare, a diluire il senso delle cose, a mantenere la gente sulla piattaforma e conquistare quello che abbiamo più caro, il nostro tempo. Quando il giornalismo si fa scomodo, quando le immagini raccontano troppo, il padrone di casa interviene.


Questa newsletter vuole essere una risposta, uno spazio di comunicazione diretta dove possiamo ritrovarci e parlare liberamente di quello che ci interessa davvero, senza censure. Uno spazio dove non siamo costretti a vedere altro e venire sommersi dal superfluo. Questo non significa che lascerò Instagram da un giorno all’altro, ma forse è l’inizio di una lenta migrazione verso una piattaforma più vicina al giornalismo in cui mi riconosco, in grado di parlare direttamente alle persone, senza intermediari scomodi. Qui, sempre di più, parlerò di fotogiornalismo, pubblicherò le mie fotografie, editoriali, articoli, masterclass, esposizioni e lavori editoriali. So di non essere l’unico alla ricerca di piattaforme che siano in grado di dare al giornalismo lo spazio e il valore che merita. Spero sinceramente di non essere nemmeno l'ultimo, e che molti colleghi, giornalisti, autori e artisti preferiscano la libertà d'espressione alle gratificazioni effimere di una piattaforma sociale.
È passato un mese dal lancio e siamo quasi 900 iscritti. Certo, non sono gli oltre 80.000 followers di Instagram, ma i numeri non sono tutto. Conta la direzione, conta la comunità, la qualità dello scambio, la libertà di raccontare senza il rischio di sparire da un momento all’altro. Con il vostro aiuto, passo dopo passo, costruiremo qualcosa che nessun algoritmo potrà cancellare.




🇬🇧 English version 🇬🇧
Journalism in the Age of Digital Censorship: When the Algorithm Decides What We See
We are flooded with images and news, under the illusion that we know everything, that we have the power to choose. And yet, information has never been so controlled, so vulnerable.
We live immersed in a continuous flow of images, words, and news. Never before has information been so accessible, yet never before has it been so fragile and difficult to recognize. In this media and visual chaos, stepping out of our comfort zone becomes essential to understand the world around us truly. It means seeking out multiple sources, perhaps in another language, to build a clearer and more complete picture of reality. Information is fragile because it is selected, filtered, erased. With the click of an algorithm, a story disappears; with a single tap, a testimony is silenced. This is how digital censorship works—quietly, without explanation.
In recent weeks, my Instagram account has been targeted. My profile has disappeared from search results, I couldn’t send messages for three days, and as an additional punishment, I have been banned from live streaming for a year. Censorship doesn’t stop at deleted posts—it is more insidious. It means being unable to reach anyone beyond your existing circle. It is a form of digital isolation that becomes political, because images disturb, because reality is hard to ignore when it is laid bare before our eyes. This happens when covering geopolitically sensitive topics, conflicts, human rights violations—when speaking about Ukraine, Gaza, or the West Bank.
Instagram, like other platforms, decides what can be shown and what must disappear. Photos of lifeless bodies, wounded children, armed militants—deleted. Posts documenting violence in the Occupied Territories—reduced to minimal visibility, if not removed entirely. It is all presented as moderation, but in reality, it is control over information. A control that follows precise logic, imposing hierarchies on suffering and determining which wars we are allowed to see and which ones we are not. Uncomfortable images vanish because they disturb, because they unsettle. Because the horror of war—if you don’t see it—doesn’t exist, making it easier to talk about something else.
Voices that tell, document, and bear witness are being silenced. And the case of Palestine is one of the most evident. It’s not just about photography—it’s about anything that challenges the dominant narrative. Even one of my latest posts was banned for sharing an excerpt from my newsletter, where I told the story of Saddam Rajab, a Palestinian boy killed in Tulkarem by a gunshot to the abdomen fired by Israeli forces. The new censorship doesn’t always require removing content directly—often, making it invisible is enough. To limit, hide, isolate. It's not just about deleted images, but a deliberate attempt to manipulate reality for economic and political purposes, certainly not for informational ones.
I want to thank the many people who have written to me, sending messages of support and suggestions on how to move forward. It matters because today, doing journalism doesn’t just mean telling stories—it also means resisting. Instagram, like all social platforms, is a private house, and like any private house, it has an owner—a proprietor who can change the rules at will, erase content, obscure profiles, decide what exists and what does not. We have given them that power, fooled into believing we were getting closer, expanding our knowledge, presenting ourselves differently. But in this house, we don’t make the rules.
Information struggles to survive amidst an ocean of fleeting images, of fast-scrolling reels designed to distract, to mislead, to dilute the meaning of things—to keep people on the platform and claim what is most precious to us: our time. When journalism becomes inconvenient, when images reveal too much, the landlord steps in.
This newsletter aims to be a response, a space for direct communication where we can come together and freely discuss what truly matters to us, without censorship. A space where we are not forced to see anything else or be overwhelmed by the superfluous. This doesn’t mean I will leave Instagram overnight. Still, perhaps it is the beginning of a slow migration toward a platform more aligned with the journalism I believe in—one that can speak directly to people without inconvenient intermediaries. Here, more and more, I will talk about photojournalism, publish my photographs, editorials, articles, masterclasses, exhibitions, and editorial projects. I know I am not the only one looking for platforms to give journalism the space and value it deserves. I sincerely hope I won’t be the last, and that many colleagues, journalists, authors, and artists will choose freedom of expression over the fleeting gratifications of a social platform.
It has been a month since the launch, and we have almost 900 subscribers. Sure, it’s not the 80,000+ followers I have on Instagram, but numbers aren’t everything. What matters is the direction, the community, and the quality of the exchange—the freedom to tell stories without the risk of disappearing overnight. With your help, step by step, we will build something that no algorithm can erase.
Grazie Fabio!
Ciao Fabio, grazie per il lavoro pazzesco che svolgi nei teatri più difficili del mondo. Ti aspetto in Abruzzo!