Come nasce un libro fotografico: il processo creativo.
Dall’idea iniziale alla selezione delle immagini, fino alla color correction: fare un libro oggi significa scegliere la complessità in un mondo che tende alla semplificazione.
A questa prima newsletter ne seguirà una seconda, una volta avviata la stampa del volume. Riprenderemo da dove ci siamo lasciati per entrare nelle ultime fasi della produzione: il book design e il processo di stampa.

Il libro fotografico
Fino ad oggi, tutti i progetti editoriali su cui ho lavorato hanno rimesso il tempo al centro della narrazione. Parlo di anni di lavoro, di andate e ritorni nei luoghi, di storie che continuano a raccontarsi. Ho scelto di dilatare i tempi per affrontare temi trasversali, capaci di andare oltre l’urgenza della copertura mediatica e aprire spazi di riflessione. Mi interessa lavorare su storie che, pur nate nella cronaca, riescano a espandere il loro campo d’azione. Conoscere l’anno esatto, le informazioni, i dettagli delle fotografie è importante, ma l’obiettivo primario resta l’idea, il racconto, il perché fare un libro.
Con The Dream, ho affrontato il sogno infranto dei migranti e dei profughi in fuga dai conflitti: una narrazione circolare che passa da immagini oniriche a reali, dal 2011 al 2016. South Sudan – The Identity of the World’s Youngest Country (Cimorelli Editore, 2024), racconta un paese alla riceca della sua identità, segnata dalla piaga della guerra, con scatti dal 2012 al 2022. Il primo di una serie che ha inaugurato un percorso che affonda le mani nelle radici del mondo, che guarda in faccia la realtà senza paura di mostrarsi cruda. Come una serie TV, ma di libri. Una volta si sarebbe chiamata "collezione", per fare diventare memoria la brutalità del mondo in cui viviamo e la resilienza delle persone che lo abitano.
Il volume Occupied Territories: Stories from the West Bank, Gaza and Lebanon affronta l'occupazione israeliana, la mancanza di libertà e la guerra perpetua in Palestina e in Libano, con fotografie che vanno dal 2013 fino all’ottobre del 2024.
Personalmente fare libri fotografici, oggi, ha un significato profondo, significa scegliere la complessità quando tutto intorno spinge verso la semplificazione. E’ un punto fermo in un mondo che scivola via troppo in fretta. E’ un momento in cui il dolore personale diventa collettivo: è il peso che si alleggerisce quando lo si porta insieme agli altri, perché alla fine, nel dolore, ci si trova, ci si riconosce. E in quel riconoscersi, il peso diventa meno grave. Non è la fine di niente, è solo un pezzo di verità che, una volta messo su carta, non è più solo tuo. È di chi lo legge, di chi lo sente.

La tematica e il racconto
L'idea è il cuore del racconto, l'anima che guida ogni scelta, ogni parola, ogni fotografia. Senza di lei, il libro è una collezione di immagini in successione, un ricordo, un documento, una copertura di un evento. Magari bello e impattante e anche necessario, ma è l'idea che dà forma, che provoca, che scava, che ti costringe a guardare e a guardarti dentro per raccontare la verità, che a volte è scomoda e che spesso disturba. È l’idea che ti fa scegliere le fotografie, che ti fa scartare, che aiuta la verità a venire fuori. E quando la verità arriva a toccarti, difficilmente puoi più ignorarla.
Occupied Territories non è solo un titolo, ma una condizione di vita. Non si tratta semplicemente di luoghi sulla mappa come Gaza, Libano o la Cisgiordania. Questi territori sono simboli di un'esperienza più profonda, che trascende la geografia. Occupied Territories è lo spazio e il tempo di chi vive sotto assedio costante. È la sensazione di un tempo sospeso, che non scorre come dovrebbe, e di corpi che non hanno la libertà di muoversi, di esistere senza limiti. È l’interruzione di vite, costrette a ridefinirsi continuamente in un contesto di conflitto eterno.
Il libro è suddiviso in tre sezioni principali: la Cisgiordania, Gaza e il Libano, dove ognuna ha una sua identità visiva che segue un filo narrativo, e tutte insieme, raccontano una storia di violenza, speranza e resilienza, intrecciando esperienze che si sovrappongono e si rispecchiano, creando un racconto corale. La prima parte, dedicata alla Cisgiordania, è completamente in bianco e nero. Qui, l'occupazione è più silenziosa, nascosta dietro il controllo e la sorveglianza. Il bianco e nero sottolinea questa tensione sotterranea, che pesa senza mai esplodere. Con Gaza, il linguaggio visivo cambia: il bianco e nero e il colore si alternano per raccontare un crescendo emotivo, per riflettere la discontinuità della vita in un territorio che oscilla tra la calma apparente e l'esplosione della violenza. Arriviamo infine al Libano, dove il colore domina, dove l'occupazione non è solo una forma di controllo, ma una guerra aperta, una devastazione che è impossibile ignorare. Il colore rende le immagini più crude, più immediate, spingendo il lettore a confrontarsi con la realtà della guerra.
Anche in questo lavoro, come nel precedente, ho incluso 4 articoli scritti per Il Fatto Quotidiano durante gli anni sul campo, per fornire maggiore contesto alle fotografie. I nomi degli autori e ulteriori dettagli saranno comunicati fra poche settimane, in occasione del lancio della prevendita.

La scelta fotografica
Questa è la parte più emotiva e creativa. Quando guardi migliaia di fotografie, un intero corpo di lavoro, il passato riaffiora. Ogni scatto, ogni volto incontrato, ogni luogo visitato riemerge nella mente e il ricordo si fa sempre più vivido. Quando le immagini si presentano davanti a me, i volti delle persone tornano presenti, raccontando storie di lotte, sofferenze, speranze. I sentimenti si riaccendono, come un fuoco che non ha mai smesso di bruciare sotto la cenere, e la paura, la solidarietà, la rabbia, la sofferenza ritornano. Non posso fare a meno di chiedermi: cosa resta di tutto questo dolore? Che senso ha, se non viene condiviso, reso collettivo, per accendere una riflessione e cercare, in qualche modo, di essere migliori? O almeno, di non commettere gli stessi errori.
La selezione fotografica significa scegliere quali immagini diventeranno memoria e quali resteranno in un hard disk, forse per sempre, o forse fino al prossimo libro o esposizione. La prima volta che sono stato a Gaza risale al 2013, durante le alluvioni che hanno inondato interi quartieri, mettendo in ginocchio un'infrastruttura già fragile a causa di anni di conflitto e blocco. Poi, ancora Gaza nel 2018, per documentare il settantesimo anniversario della Nakba e la ‘Grande Marcia del Ritorno’. Dopo il 7 ottobre 2023, invece, ho trascorso diverso tempo in Cisgiordania, come nel 2024. Infine, nell'ottobre dello scorso anno, in Libano, per documentare il conflitto fra Israele e Hezbollah.
Ma un libro non è un archivio, è una narrazione, e come ogni racconto, ha bisogno di struttura, di ritmo, di pause e di un crescendo — in questo caso — dall’occupazione alla violenza. Ogni fotografia scelta deve dialogare con le altre, costruire un filo invisibile che tenga insieme le pagine. Deve evocare senza spiegare, suggerire legami, offrire spazi di riflessione. Alcune immagini, per quanto potenti da sole, non trovano posto nella storia che si sta costruendo. Altre, più silenziose, diventano fondamentali nel ritmo complessivo. La selezione per un libro non è la stessa di quella per una mostra, una pubblicazione, una pagina web o un premio. Bisogna lavorare su più livelli: dalla foto singola alla doppia pagina, dal capitolo all’insieme, e questo richiede ascolto delle immagini, dei silenzi e di chi le guarderà.
La selezione è un processo lungo, importante e a volte doloroso. Non è solo una questione estetica, ma di significato, contesto e visione d’insieme. Serve a trasformare un accumulo di fotografie in un racconto che abbia una voce unica, riconoscibile, coerente.

La Color Correction
Per ‘Occupied Territories’ sono andato a Maiorca, per uscire dalle dinamiche quotidiane, per vedere le fotografie con un’altra luce — in tutti i sensi — per staccare, ma soprattutto per lavorare insieme al mio laboratorio di postproduzione. Con Joan Roig ci conosciamo da più di dieci anni. Le prime immagini su cui ha lavorato sono quelle scattate in Sud Sudan nel 2012. Da allora ha visto per primo molte delle mie storie, la Siria, il Cile, l’Ucraina, il Covid, l’ultimo libro e quello attuale. Conosce meglio di chiunque altro il mio modo di scattare: sa leggere le ombre e le luci, le saturazioni e i contrasti che cerco.
A volte le immagini finiscono stampate in grande formato, come quelle scattate in Libano pochi mesi fa, esposte nelle Gallerie a Trento: in quei casi ogni dettaglio conta, ogni dominante, ogni viraggio non voluto, ogni contrasto fuori posto diventa evidente. Ma non pensate che sia solo una questione tecnica — certamente Joan è molto tecnico — ma il vero valore sta nella capacità di leggere la fotografia, e per farlo bisogna conoscerla. Conoscere chi è venuto prima, sapere cosa è stato fatto, leggere il contemporaneo e, a volte, intuire il futuro.
Lavorare su ogni immagine — anche quelle in pellicola — riuscendo a rispettarne l’anima senza mai snaturarla è un processo che richiede ascolto e pazienza, ma soprattutto una visione condivisa con l’autore. Perché non si tratta solo di “correggere” un’immagine, ma di accompagnarla verso un’armonia complessiva. È come scrivere una partitura, dove ogni nota deve suonare giusta, anche se arriva da uno strumento diverso. Ogni singola fotografia viene trattata come parte di un tutto: i colori si armonizzano, le luci si equilibrano, le atmosfere si accordano. Un lavoro che si può fare su una foto, su due, magari su tre, ma che diventa impensabile sostenere con la stessa qualità su un intero reportage scattato in mesi, in luoghi, in condizioni di luce e tensione completamente diversi. La postproduzione, in questo senso, ha il compito di rendere coerente l’intero arco narrativo e diventa parte integrante del racconto. A volte, per ottenere un buon equilibrio tra le luci e le ombre in un’immagine, è necessario esporre diversamente già in fase di scatto. Può sembrare un paradosso, ma per riuscire a preservare i dettagli nelle zone più critiche — come i bianchi estremi o i neri profondi — lo scatto deve essere volutamente sottoesposto o sovraesposto. Questo approccio è una scelta consapevole, tecnica e narrativa, che tiene conto di come verranno stampate le fotografie.
Quando si lavora in RAW, il file mantiene una gamma dinamica molto più ampia rispetto a un JPEG. Questo significa che si possono recuperare i dettagli nelle alte luci o nelle ombre, senza perdita qualità. Ad esempio, in una scena con forte contrasto, può essere preferibile sottoesporre leggermente per non bruciare le alte luci: sarà poi possibile far riemergere soavemente i dettagli nelle ombre in fase di sviluppo. Bisogna saperlo fare, anche per questo lavoro con Joan.
Ci sono fotografie che oggi riguardo con altri occhi. Alcune mi parlano ancora con la stessa forza del primo giorno, altre sembrano distanti. È normale, forse inevitabile. Cambia l’esperienza, cambia lo sguardo, cambia il tempo che attraversa le immagini. La fotografia, come ogni linguaggio, evolve: si sporca, si pulisce, si contamina. Joan, che da anni lavora immerso nella fotografia e nel mondo del fotogiornalismo, ha vissuto questa trasformazione da vicino, osservando come la fotografia sia cambiata — e con lei le sensibilità, le intenzioni, i codici visivi.
E poi c’è l’aspetto più silenzioso, ma non meno intenso, che unisce il fotografo al suo collaboratore: il peso delle immagini. Soprattutto quando raccontano la guerra, la sofferenza, la perdita. Chi le fotografa porta quel peso addosso. Ma anche chi lavora dopo quei file, quei corpi, quei visi, in un certo senso, entra dentro quel dolore. Lo filtra, lo attraversa, lo rielabora.
Ne parleremo nelle prossime newsletter, dove approfondirò questi temi conversando con professionisti ed entrando nell’ultima fase del processo creativo che porta una fotografia dallo scatto alla stampa. Perché è proprio lì, nel libro, che tutto trova il suo equilibrio finale.
Il buon giornalismo richiede tempo. In un’epoca compressa e veloce, dove il patto di fiducia tra editori, i giornali e il pubblico si è rotto, al giornalismo servono nuovi spazi d’espressione, di visone. Spazi dove il tempo torni ad essere una risorsa primaria: tempo per ascoltare, per raccontare, per riflettere e resistere alla propaganda e agli schieramenti. È lo stesso spirito che mi ha portato a pubblicare un nuovo libro a un anno dal precedente — un progetto che richiede tempi dilatati e spazi per essere concepito e letto — e che mi ha spinto a creare questa newsletter. Ma il tempo ha un valore. Ogni ora dedicata a scrivere, intervistare, raccontare è tempo investito. Per rendere sostenibile questo spazio, a breve, alcuni contenuti saranno riservati agli abbonati. Ci saranno formule diverse: dal sostegno simbolico mensile a pacchetti che includeranno confronti diretti, portfolio review, dietro le quinte del lavoro, sconti su libri e stampe.
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Grazie! Gran lavoro!
Queste tue riflessioni sono preziose, Fabio. Grazie per condividerle.